martedì 6 ottobre 2009

Mapping

Sottintendendone il genitivo "information", ma si può anche dire single sourcing o, nel campo dell'informazione e al di fuori delle strategie degli uffici acquisti che si servono di un solo fornitore, single source publishing o, ancora, modular writing.

Già la psicologia cognitiva ci aveva dimesticato con la nozione di chunking, l'acquisizione di quell'unità discreta d'informazione (chunk, appunto, cioè una "quantità", un "blocco", un "tot") che ci è divenuta tanto familiare da poter entrare quasi senza sforzo nella nostra memoria a breve o a lungo termine come, per esempio, il fischiettare il tormentone musicale dell'estate (a breve termine) o la capacità di guidare una bicicletta (a lungo termine).
Se n'era occupato niente di meno che William James nel 1890 teorizzando i due tipi di memoria, ma è stato solo negli anni Cinquanta che George Miller è riuscito a misurare la quantità d'informazione che la memoria a breve è in grado di ritenere.

Più tardi il concetto di chunk si è ampliato a significare, più genericamente, un «insieme strutturato di informazioni immagazzinate nel momento in cui la conoscenza viene acquisita» (Clayton Lewis, 1978) intendendo spiegare il meccanismo con il quale, appreso il chunk relativo a un comportamento, ogni risposta a sollecitazioni analoghe accade in tempi sempre più brevi. Con il procedere dell'acquisizione di conoscenza, i chunk si fanno via via più complessi, passando da conoscenze solo dichiarative («so che si fa così») a conoscenze procedurali («so farlo»).

Ora, è proprio il chunking a essere alla base della mappatura dell'informazione, cioè di quell'attività che consiste nello sminuzzare ed etichettare l'informazione per facilitarne la comprensione, l'uso e il richiamo.
Il metodo, messo a punto alla fine degli anni Ottanta da Robert E. Horn, docente di Scienze politiche e creatore di Information Mapping Inc. e che ha identificato più di duecento chunk, dai quali derivano diversi tipi di information mapping (come Procedure, Process, Principle, Concept, Fact, e Structure), è ormai quasi universalmente impiegata nella strutturazione di testi (structured writing) destinati alla comunicazione tecnica: esattamente il mestiere del "documentalista" nell'accezione americana, che s'ingegna nello sfruttare un singolo documento come fonte per una molteplicità di esiti più complessi, come manuali d'uso o help in linea.
Perché riscrivere il medesimo testo per destinazioni e formati differenti o, altrimenti detto: come riusare l'informazione disponibile? Cioè: come trasformare un'informazione lineare in una modulare in modo che possa essere assemblata e ri-assemblata? E, soprattutto, lo si può fare in automatico? (Da tempo ci si provano desktop publisher come Adobe FrameMaker o Apache Forrest o Altova StyleVision).

Ma il mestiere di questo tipo di documentalista è applicabile ad altre attività, come quelle che vedono il moderno webmaster impegnato a definire la granularità dell'unità minima d'informazione necessaria in un àmbito determinato, come un singolo testo (ma anche una registrazione audio-visiva) che veicola una singola idea (fino, al limite, a una sola idea per ogni pagina web) da distribuire entro l'architettura più efficace di un sito. Oppure, tutto ciò che abbiamo detto alla voce Catene cognitive nel precedente numero del «Bibliotecario».

La cosa va anche oltre il webmastering e può toccare la progettazione e l'ottimizzazione dei flussi documentali a fini di knowledge management. Per esempio, era applicazione di single sourcing in un contesto non usuale l'abbandonato progetto "Chiaro!" del dipartimento della Funzione Pubblica per la semplificazione del linguaggio amministrativo: moduli composti in anti-burocratese da poter assemblare per le più diverse necessità procedimentali.
  • Kurt Ament, Single sourcing: building modular documentation. Norwich: William Andrew & Noyes Publications, 2002. ISBN: 0815514913. [L'opera è leggibile online con Google Libri].
  • Mindy McAdams, Tips for writing for the Web.
[post-print da "Il bibliotecario", III serie, ISSN 11250992, 1-2/2010, p. 248-249]

Falso documentale

All'IFLA 2009 di Milano anche la Biblioteca Europea di Formazione e Cultura esponeva il proprio spazio negoziale distribuendo una bellissima brossura illustratrice di sé e delle sue realizzazioni:
«Alla BEIC trovate... / 900.000 volumi in consultazione / 50.000 documenti audiovisivi / 3.400.000 titoli in deposito / 300 testate quotidiani [!] / 3.000 periodici / 3.500 posti di lettura / 1.000 posti in auditorium / 300 persone occupate».
E altrove:
«Si può dire che la BEIC è "una grande struttura bibliotecaria e multimediale con libri, documenti visivi e musicali a libero accesso, con una forte integrazione tra cartaceo, multimediale e digitale". Ma la BEIC è molto di più. È un portale della conoscenza in cui tutti possono entrare, fisicamente o virtualmente, sentirsi a casa propria e, al tempo stesso, provare l'emozione di essere su una piattaforma interconnessa con il mondo intero».
Un'altra biblioteca di Alessandria del XXI secolo.

Sorprendono però queste coniugazioni all'indicativo presente, che inducono l'ingenuo a precipitarsi (ma che senso ha consultare materiale "in linea" ma solo dall'interno di una biblioteca?) nella zona di Porta Vittoria a Milano per godere di cotante possibilità cognitive. Troverebbe una grande spianata recintata ma abbandonata, destinata a un progetto ormai vecchio e ricco di interessanti contraddizioni e che, verosimilmente, non sarà mai realizzato, nemmeno per il fatidico 2015.

Forse è per questo che la nota illustrativa della brossura di cui sopra conclude rivelando: «La BEIC è semplicemente un'idea che guarda al futuro».

[post-print da "Il bibliotecario", III serie, ISSN 11250992, 1-2/2010, p. 246-247]

ULTIMA ORA
Su eddyburg.it di Eduardo Salzano, Luca Beltrami Gadola ha pubblicato il 27 aprile 2004 "Perché Milano non è una città normale" dove tra altro, e al riguardo, scrive:
Notizia numero tre: la Beic – Biblioteca europea di informazione e cultura – quella che doveva nascere a Porta Vittoria, non si farà più. L’assessore Masseroli sta già pensando a un riassetto urbanistico della zona. Si nutrivano speranze di trovare i soldi per la Biblioteca tra gli stanziamenti per le celebrazioni dell’Unità d’Italia. Pure di questo nulla, dell’Unità d’Italia alla Lega non importa un fico secco e l’ultimo baluardo della cultura milanese a seguire [...].


Crisi

Il problema è in parte linguistico e in parte epistemologico. Quella che in Europa chiamiamo "del documentalista" è professione nata quasi per caso per dar modo alle industrie o alle aziende "investigative" di trovare informazione e documenti per la realizzazione dei loro fini.
C'era bisogno del lavoro di individui che conoscessero il dominio nel quale insistevano i fini istituzionali. Di norma, questi operatori non dipendevano dagli enti interessati né possedevano ancora titoli di studio adeguato - al più, erano ingegneri o fisici o chimici - ma erano ricchi di un sapere pratico molto raffinato ed efficace e conoscevano o trovavano le fonti come nessun altro.

Quando fu necessario dar loro un nome professionale, l'Europa scelse, illustre tradizione, "documentalista" ma gli anglosassoni, ancora oggi, diedero nessun nome: quelle di "information scientist/expert" o, successivamente, "information manager" o "information/gate keeper" e altre, sono denominazione tarde, conseguenti al sorgere di scuole e facoltà dedicate alla gestione del complesso informazione-documentazione o, più recentemente ancora, alle esigenze del knowledge management.

La sistematizzazione accademica ha però creato una mescolanza concettuale con professioni simili - il bibliotecario, l'archivista - responsabile di una certa stagnazione prospettica, intesa più alla conservazione e alla localizzazione dell'informazione piuttosto che ai fini proattivi del documento (vedi Comunità di prassi su «Il bibliotecario» 1/2009).
L'aggregazione/integrazione delle professioni dell'informazione tra di loro sta continuando, aumentando la sensazione di crisi del documentalista: un progetto UNESCO ha proposto un'unica professione articolata in tre categorie non ben definite, il Processo di Bologna sta imponendo un'unificazione formativa per tutti i professionisti, quando sarebbe forse vantaggioso, per la specializzazione documentalistica e per coordinare formazione con professione, un modello curricolare basato su brevi corsi in scienze della documentazione insieme con quelli relativi al dominio applicativo aziendale.
Il fatto è che non si tratta, veramente, di "scienza" della documentazione ma di attività ancelle o sussidiarie o complementari a qualche altra scienza o tecnica. L'informazione-documentazione è come la ruota di un'automobile: senza di essa la macchina non si sposta, ma è il motore che la fa andare... e il motore - lungi dalle dichiarazioni di centralità dell'informazione - non è già o non ancora la gestione dell'informazione-documentazione.

La crisi non è recente. I documentalisti erano esperti dell'online quando Internet ancora non era ma, dopo, nessuno più si ricordò di loro, perché il motore risiedeva nella computer science e nelle sue applicazioni sull'informazione (la cosiddetta informatica in senso proprio), alle quali i documentalisti hanno sì contribuito, ma senza collocarsi mai nel cuore della disciplina: utilizzatori, perfezionatori, non creatori diretti.
Così, gli informatici hanno progredito da soli, anche inventando a spese della documentazione nuovi termini per vecchi concetti: tag, metadati, taxonomy, web semantico... e consentendo agli utenti finali di trovare da soli il necessario.
Ma il mestiere di documentalista non è, tanto, quello di trovare informazione e documenti quanto, e soprattutto, di rielaborare il materiale trovato per poter dare una risposta certa alle esigenze cognitive del "cliente".
Il futuro dirà se c'è un futuro...

Del documentalista quanto a identità professionale, a sicurezza dell'impiego e a posizione nel mercato del lavoro si è discusso a margine di IberSid 2008 (convegni ottobrini della Facultad de Filosofía y Letras dell'Università di Saragozza); Emilia Currás - consulente e storica dell'informazione e della scienza, già docente di chimica e di documentazione scientifica in Germania e in Ispagna - ne ha elaborato sue riflessioni, qui sopra sintetizzate e commentate.
  • Francisco Javier García-Marco (ed.), Ibersid 2008. Avances y perspectivas de sistemas de información y documentación, Prensas Universitarias de Zaragoza, 2008, ISBN 9788492521258
  • Emilia Currás, El documentalista en crisis, 2008, nuova edizione su «El profesional de la información», 2009, julio-agosto, v. 18, n. 4, p. 421-423, DOI: 10.3145/epi.2009.jul.09
[post-print da "Il bibliotecario", III serie, ISSN 11250992, 1-2/2010, p. 245-246]

Biblioterapia

Prima si classifica il paziente (di solito, depresso o ansioso), poi gli si scelgono i libri appropriati. Questi li legge e poi ne discute i risultati. Effetto atteso è una catarsi. Una volta così sensibilizzato, il sofferente viene guidato alla soluzione dei suoi problemi. Semplice.

Le prime avvisaglie scientifiche risalgono alla metà degli anni Novanta, quando a qualche centinaio di professionisti fu chiesto conto dell'uso della lettura come metodo terapeutico: tre quarti di loro risposero affermativamente e sei settimi giudicarono che la lettura era stata determinante per un miglioramento. In séguito furono registrate diverse rilevazioni positive attraverso gruppi di controllo.

L'evoluzione disciplinare è stata intensa, per cui abbiamo ora almeno quattro tipi di biblioterapisti: psicoterapeuti (per la cura di disturbi mentali - e la sotto-disciplina è detta "biblioterapia psicoterapeutica"), medici (soprattutto per educazione sanitaria), psicologi (per prevenzione e sostegno psicologico - si tratta di “biblio-psicologia”, “biblioterapia psicologica” o “psicobiblioterapia”) nonché educatori e operatori della formazione (in àmbito pedagogico, artistico, motorio, sociale, ricreativo, eccetera - e si parla allora di “counseling biblioterapeutico”, “letteratura-evolutiva”, “orientamento biblioterapeutico”).

La scelta del materiale librario va da manuali ad hoc per adulti (come Feeling good di David Burns o Control your depression di Peter Lewinsohn o, in italiano, Psicologia della solitudine di Antonio Lo Iacono o I no che aiutano a crescere di Anthony De Mello, o altri) a letteratura specializzata per l'infanzia e l'adolescenza, fino a qualsiasi opera venga giudicata adatta, nel qual caso diventa cruciale la collaborazione specialistica del "buon" documentalista, utile per la scelta di libri che siano anche ben scritti (estetico-terapia?) oltre che efficaci. Queste due tendenze (manuali di auto-aiuto o buone letture) si dividono il campo teorico della disciplina.

Ansioso? Leggi un romanzo, invitava Paola Emilia Cicerone su «L'espresso» del 23 gennaio 2008, dando conto anche di bibliografie preparate dal National Health Service britannico. La posizione è sostenuta anche da Shechtman e Nir–Shfrir dell'Università di Haifa, che esaltano gli effetti "affettivi" della lettura nel trattamento psicoterapico. Freud, dal canto suo, sconsigliava ai nevrotici di leggere trattati scientifici o filosofici per non esaltare troppo le componenti intellettuali del loro disagio.

Non possiamo, qui, alla ricerca dei prodromi, dimenticare l'arte medica di François Rabelais quando sostiene, nel cosiddetto "Ancien prologue" a "Le Quart Livre / des faicts et dicts heroïques du bon Pantagruel":
«Si je prenoie en cure tous ceulx qui tombent en meshaing & maladie, la besoing ne seroit mettre telz livres en lumière & impression. [...] Puis doncques que possible n'est que de tous malades soys appellé, que tous malades je prenne en cure, quelle envie est-ce tollir ès langoreux & malades le plaisir & passetemps joyeux, sans offense de Dieu, du Roy ne d'aultre, qu'ilz prennent, oyans en mon absence la lecture de ces livres joyeux?».
Che in realtà, proponendo la lettura delle sue opere gioiose come surrogato della presenza di se stesso come medico, egli dimostra di appartenere all'altra corrente, quella degli autori di manuali di auto-aiuto, come effettivamente sono i cinque libri della serie Gargantua-Pantagruel.
Oppure, con intento contrario e maligno - ma sarebbe un oggetto della voce "A (o Pseudo) biblía" -, indurre seri problemi di certezza di sé e del mondo consigliando di rintracciare e leggere qualcuna delle opere catalogate da Johann "Mentzer" Fischart nel suo Catalogus catalogorum perpetuo durabilis (1567) o da qualcuno dei suoi molti epigoni... E al di fuori dei libri? Non rimane che consigliare le "pietre che cantano" (Marius Schneider, ISBN 887710645X) per rivivere, dopo la catarsi, al ritmo dei chiostri catalani di stile romanico.
  • Dheepa Sridhar, Sharon Vaughn, Bibliotherapy: practices for improving self-concept and reading comprehension, In The social dimensions of learning disabilities. Essays in honor of Tanis Bryan. Mahwah, NJ: Erlbaum, 2000.
  • Zipora Shechtman, Rivka Nir–Shfrir, The effect of affective bibliotherapy on clients' functioning in group therapy, «International Journal of Group Psychotherapy», gennaio 2008.
[post-print da "Il bibliotecario", III serie, ISSN 11250992, 1-2/2010, p. 243-244]