lunedì 7 marzo 2011

Culturomica

O culturomics per chi ama gli originali, è il nuovo servizio infor-biblio-scientometrico che innova l’informatica umanistica - talché il NYT è pronto a parlare di «Humanities 2.0» -  appoggiato sull’inevitabile Google da parte di ricercatori di Harvard che hanno messo a punto il grafico di un n-gramma markoviano su una popolazione di dati estratti dal 4% di tutti i libri mai scritti in sei lingue per un totale di 500 miliardi di parole, presenti su Google Books: «scrivete una parola o una frase in una delle sette lingue (inglese, francese, tedesco, spagnolo, ebraico, russo, cinese) e guardate come la sua frequenza di utilizzo è cambiata nel corso dei secoli scorsi» invita l’home page di Culturomics.

Oggi la risorsa è però ancora ottimizzata per la sola lingua inglese del periodo 1800-2000. Scienziati di varie discipline dall’Università di Harvard hanno creato, così, un Google Books N-gram Viewer  che fornisce elementi statistici in campi diversi come la lessicografia, la grammatica, la memoria collettiva, l’uso della tecnologia, la fama, la censura, l’epidemiologia storica.

Per citare un esempio fornito da Patricia Cohen, scrivendo la parola “women” in confronto con “men” si può vedere l’evoluzione della frequenza dei due termini, stabile fino all’arrivo del femminismo degli anni ’70 che ha capovolto e incrementato il rapporto di frequenza.

La risorsa, sostengono ad Harvard, può accelerare, tra l’altro, lo studio dell’evoluzione del linguaggio per l’aggiornamento dei vocabolari.
[pre-print per "Il bibliotecario", III serie, ISSN 11250992, 1-2/2011]

Griglie e nuvole (e folla)

E s’intenda grid e cloud, sottinteso computing, dove la prima è nota come architettura di calcolo distribuito per l’elaborazione di grandi quantità di dati mediante la condivisione coordinata di risorse all’interno di un’organizzazione virtuale, come la griglia di calcolo scientifico del CERN, per esempio, e che è fonte storica della seconda e nella quale i confini tra le risorse non sono più così dettagliati e i serventi non così più specializzati (basta una serie di PC domestici) per condividere, soprattutto, documenti e informazioni alla riduzione dei costi, alla semplificazione della gestione e al dono dei rischi al fornitore, che è fornitore non di prodotti ma di servizi («I prodotti stanno diventando servizi», scriveva Marshall McLuhan nel 1966) : tutto ciò che usiamo in rete compresa la banca sotto casa è ormai appollaiato su una qualche nuvola, da qualche parte... con una tale assenza di garanzie giuridiche da preoccupare chi teme numeri così grandi nelle mani di così pochi grandi affidatari di organizzazioni così complesse (che varranno 150 miliardi di dollari nel 2013) presso le quali depositare i nostri dati “sensibili” e dei quali non si è sempre certi di poter mantenere la proprietà esclusiva.

Poi è arrivato il 2.0 che ha pensato bene di espandere griglie e nuvole di macchine a una folla di persone: crowd computing, appunto, o crowd source, da rendere pletorico il concetto stesso di calcolatore come oggetto fisico (ma anche di mente individuale, almeno a credere a Cinecarta, «Il Bibliotecario» 3-4/2010) insieme con l’obsolescenza dei concetti e delle prassi di download e di upload perché tutto si tiene in un altrove sempre accessibile e quindi sempre disponibile.

Grazie a griglie e nuvole, aziende come InnoCentive, per dirne una, vendono servizi di analisi statistica ed economica, di progettazione industriale e di problem solving con investimenti “leggeri” in infrastrutture altrimenti impossibili senza il ricorso al calcolo distribuito. Ma non ci sono solo, in altri campi, Wikipedia o Facebook: c’è da poco anche Digitaltkoot  della biblioteca nazionale finlandese per digitalizzare i suoi testi ripartendo tra gli utenti volontari la correzione dei caratteri non riconosciuti dallo scanner e che si presenta come un video-gioco a premi, per fuggire la noia della ripetitività, vincere qualcosa e sentirsi parte di una comunità utile alla cultura finlandese.
Quanto è grande questa griglia di nuvole in mano alla folla? Non poi molto, apparentemente: meno di un 1 seguito da cento zeri - il Numero di Googol - (ma la quantità approssimativa delle partite a scacchi possibili è potenza 120 di 10) e che è sempre, però, più grande della stima del numero delle particelle subatomiche nell'universo cosiddetto “conosciuto”, che, dicono, si aggira “solo” intorno alla potenza 70 di 10...
[pre-print per "Il bibliotecario", III serie, ISSN 11250992, 1-2/2011]

Hita-hita

Ovvero, in giapponese, qualcosa che penetra delicatamente e senza intoppi (gently and smoothly) come spiega un documento della Digital Repository Federation nipponica sulla politica di advocacy (patrocinio, appoggio, propugnazione...) dell’Open Access negli archivi istituzionali. È metodo contrario a quello, faticoso e di scarso risultato, cosiddetto “del bastone e della carota” generalmente in uso nel nostro mondo, attraverso il quale le università, gli enti di ricerca o i governi cercano di “costringere” i ricercatori a depositare gli esiti documentali della loro attività scientifica in archivi di libero accesso alla comunità internazionale, prospettando (carota) grande visibilità e alti fattori d’impatto oltre che (bastone) la consapevolezza che solo il materiale in essi archiviato verrà utilizzato per valutare la produttività scientifica individuale anche ai fini dell’ulteriore finanziamento delle ricerche.

Come tutto ciò che vuol adottare il metodo della dolcezza, queste penetrazioni richiedono una lunga e paziente preparazione di ammorbidimento e umidificazione psicologica della parte, attraverso azioni di informazione capillare gestite dai bibliotecari, conversazioni con i ricercatori, diffusione di materiale illustrativo, pubblicazione a passo a passo dei risultati, condivisione di problemi e appello alla discussione di idee per la loro soluzione. Una soluzione dai migliori esiti del knowledge management che, non a caso, è strategia industriale da Sol Levante...

Sono così oggi in Giappone 122 le istituzioni che detengono globalmente 760 mila articoli (una media di più di 6000 articoli a istituzione su un totale europeo di 250 archivi che valgono in tutto due milioni e mezzo di documenti, con una media di mille articoli a istituzione).


[pre-print per "Il bibliotecario", III serie, ISSN 11250992, 1-2/2011]

Peer Web

Per prima ha cominciato, nel suo sessantesimo compleanno, la «Shakespeare Quarterly» e ora ci sta provando anche «Postmedieval» ma già da tempo la cosa è corrente nel mondo umanistico della Matematica dove, usando blog e wiki, nel giro di una sola settimana è stato pubblicato e valutato un articolo, decidendo di non usare il metodo tradizionale, che in genere impiega mesi o anni per conseguire il medesimo risultato.

«Shakespeare Quarterly» - annuncia Katherine Rowe, guest editor dello speciale 61:4, “Shakespeare and New Media” - ha infatti condotto da marzo a maggio 2010 un esperimento di parziale open peer review.

Ne dà conto in Italia «CIBER Newsletter» (sul sito sono riportate le fonti), raccontando come accademici umanistici comincino a sfidare il sistema del peer review tradizionale chiedendosi se non ci sia un modo più efficace, usando Internet, per sottoporre il prodotto a un giudizio rapido e collettivo di un pubblico più ampio, invece di dipendere da pochi esperti scelti dagli editori - e a costi più alti. La Rivista di cui sopra ha infatti invitato a fare commenti scientifici su quattro articoli già sottomessi a giudizio da un gruppo "interno", tanto per godere della scientificità del confronto con un gruppo di controllo. 

Alla fine dell’esperimento, 41 persone hanno fatto più di 350 commenti di buona qualità, spesso sollecitando à rebours i commenti degli autori che, in questo modo, sono stati coinvolti a confrontarsi, e sùbito, con i propri lettori, innescando così, anche, una circolarità virtuosa del dibattito scientifico, approdando a un'intelligenza e a un'autorialità, di fatto, collettive.

[pre-print per "Il bibliotecario", III serie, ISSN 11250992, 1-2/2011]

Ovo Qwiki

Ovvero: guardare l’informazione.

L’invenzione di cui a <www.qwiki.com> (in fase alpha e accessibile ancora solo per inviti), è stata premiata da CrunchBase 2010 che valuta le idee più innovative del web e consiste in una enciclopedia multimediale nella quale la consultazione sfrutta la trasformazione automatica di fonti testuali e visive in presentazioni video, grafica e in una voce narrante che racconta al non lettore i fatti salienti di un personaggio, un fatto storico, una città, un tipo di tecnologia, un genere musicale. Il processo di trasformazione è completamente automatizzato non prevedendo l’intervento umano nella creazione dei filmati. L’idea nasce da un ex-collaboratore di Facebook, Eduardo Saverin e dal fondatore di YouTube, Jawed Karim.

Diversa ma correlata nelle prospettive è l’iniziativa italiana di Ovo <www.ovo.com> creata in due tempi da Andrea Pezzi (che condivide con Vincenzo Monti la nascita ad Alfonsine) e che la racconta in Fuori programma, Bompiani, 2008. A differenza di Qwiki - e a parte il diverso ammontare di finanziamento e il numero di informazioni disponibili - Ovo non è costruita automaticamente, si presenta con una ricca interfaccia grafica cliccabile ed è organizzata in categorie: Ovobio (uomini e donne che hanno fatto la storia), Ovopedia (sapere enciclopedico) e Ovopolis (le strutture culturali create dall’uomo).

La vera novità sta però altrove, e consiste nel rifiuto di qualunque contributo user generated o frutto di un lavoro di crowd sourcing, a vantaggio di voci firmate, edite ed eventualmente anche finanziate dal singolo autore, che diviene così “proprietario” di una voce d’enciclopedia, fino al mecenatismo culturale di aziende che usano questa forma di editoria per acquisire spazio pubblicitario.


[pre-print per "Il bibliotecario", III serie, ISSN 11250992, 1-2/2011]

Vook

Non è Video, non è Book ma la sincresi di entrambi (a meno di non tradurre il neologismo in Vibro...). Lo ha lanciato ormai da più di un anno l'editrice americana "Simon & Schuster" con <vook.com>, immettendo sul mercato un brevetto di Bradley Inman, creatore di una piattaforma innovativa sulla quale tutte le forme di media possono integrarsi per realizzare nuove esperienze di comunicazione.

Il video-libro o libro+film è scaricabile per pochi dollari da iTunes (ma per il San Valentino del 2011 bastavano 99 centesimi) sul proprio iPhone o iPod, iBook, iPad, Kindle, o direttamente online e, se all’inizio conteneva soprattutto manuali didattici e qualche prima opera di narrativa (come  un racconto di Anne Rice sui vampiri corredato anche da un booktrailer girato dal figlio), il catalogo è ora più ricco e completo.

La lettura del libro (o, in misura minore, l'ascolto della radio), proprio perché priva di figure (proprio quelle che Alice avrebbe desiderato incontrare nella lettura), consente all'immaginazione di costruire lo scenario e le fisionomie in piena autonomia, così che due letture del medesimo libro, anche da parte del medesimo lettore, non dànno all'intelletto il medesimo risultato. Un film o uno spettacolo teatrale o un fumetto consentono, viceversa, seppur in differenti misure, un'interpretazione meno o per nulla personalizzata perché castrante della struttura imaginifica di ciascuno e impositiva di soluzioni visive scelte da altri, anche se è vero che l’immedesimazione emozionale del “lettore” con l’eroe della storia avviene in modo più rapido e profondo. Comunque sia, l'integrazione di due modi tanto differenti di percorrere una storia creerà, verosimilmente, un nuovo tipo esperenziale di lettura: immersiva, estrattiva, didattica o tutte e tre insieme o una quarta forma ibrida di interattività che ancora non conosciamo?

In ogni caso: «Noi crediamo che sia possibile "vookkare" ogni libro», dice Bradley Inman, fautore del trionfo di ogni comodità: guardare di più e lèggere di meno.

[pre-print per "Il bibliotecario", III serie, ISSN 11250992, 1-2/2011]

Zotero e gli altri

Zoh-tair-oh, come dicono gli anglosassoni, deriva dall’albanese zotëroj che significa “padroneggiare”, “imparare particolarmente bene” ed è un’applicazione di Mozilla Firefox (ma da febbraio 2011 è disponibile in standalone anche per i browser Chrome e Safari) che dal 2006 aiuta a compilare bibliografie estratte da pagine web oltre a costruire una base di dati bibliografici personale. Da settembre 2010 è disponibile anche nella versione everywhere che consente l’accesso al proprio materiale anche da Web e da mobile con controllo di username e password.

Vi è memorizzata all’origine una quindicina di stili di citazione (dal “Chicago manual of style” a quello della IEEE o della National Library of Medicine e altri) ma è possibile incorporare stili usati da quasi 1500 riviste. Intrepreta interamente le schede di quasi 400 OPAC internazionali - SBN ovviamente escluso - e altri solo parzialmente. Capostipite storico del servizio è BibTeX, a sua volta evoluzione di LaTeX, per la formattazione di liste bibliografiche e glorioso nella scrittura di formule matematiche, usato come output da molte basi di dati bibliografiche, come quelle di Amazon, di CiteSeer, di PubMed e altre. Zotero non è però unico nel suo àmbito, anche se è per ora il solo che può lavorare direttamente da pagine web: tra gli affini, Aigaion, Bib-it, Jabref, Pybliographer, Referencer,  RefTeX e BibDesk (per Mac OS X).

Che ne avrebbe ricavato un Conrad von Gessner?

[pre-print per "Il bibliotecario", III serie, ISSN 11250992, 1-2/2011]