lunedì 15 novembre 2010

Cinecarta

Non è la tessera d'abbonamento al cinema ma, secondo Pierre Lévy, lo strumento d'identità degli intellettuali "puri" e quasi angelici che abitano lo "spazio" del Sapere (quarto elemento antropologico, Noolitico, della storia del mondo, dopo - ma compresenti nelle coscienze - la Terra, il Territorio e la Merce). A differenza del nome (iscrizione in una genealogia terrestre), dell'indirizzo (iscrizione in un confine territoriale), e della professione (iscrizione in un àmbito merceologico), che tendono alla permanenza nel tempo, non è facile essere riconoscibili nella e da parte della collettività a seconda del sapere (savoir) del quale si è portatori, se non altro perché il sapere di ciascuno e di tutti è un'entità non solo interiore e riservata che esce raramente allo scoperto ma anche mobile e in continua trasformazione e che, di fatto, de-gerarchizza tutti gli altri segni di riconoscimento più esteriori. Inutile, allora, combattere contro l'intrinseca de-strutturazione che la conoscenza (savoir) esige: meglio premere il pedale dell'acceleratore e rinunciare a staticizzare qualcosa che è fluido, cinetico (appunto) e caotico nel senso esiodeo. Questo miracolo lo fa, per Lévy, il ciberspazio, eccetera.


La cinecarta è, intende l'Autore insieme con Michel Authier, il solo documento d'identità valido a rappresentare la totalità dell'individuo al di là e al di sopra (o al di sotto) delle cristallizzazioni della personalità, che tendono a sclerotizzare il mutamento in segmenti lineari e codificati a-priori, controllabili (e non solo dagli psicologi). Paradossalmente, qui lo sbocciare delle potenzialità dell'individuo sembra realizzabile solo accedendo a un'intelligenza collettiva che fa e disfa, tesse e sfila in modo ricorsivo e cooperativo i contenuti dell'orizzonte dei segni, sottraendolo alla logica binaria, non-contraddittoria e coercitiva dell'appartenenza. Il ricorso alla realtà virtuale, così, consente di possedere tante identità quanti sono i "corpi virtuali" che di volta in volta assume quel "cervello collettivo" che è, propriamente, la totalità del sistema cognitivo. È un'organizzazione topologica di relazioni e rapporti tra punti-segno che esprimono qualità. Ogni punto-segno è però una struttura ipertestuale e al suo interno vi sono ulteriori informazioni; insomma, una realtà virtuale, un ciberspazio generato dalle attività esplorative di un intellettuale collettivo in seno a un universo dell'informazione. «Nello spazio del Sapere, l'uomo ridiventa nomade, rende plurale la propria identità, esplora mondi eterogenei, è egli stesso eterogeneo e multiplo, in divenire, pensante». «È un nuovo umanesimo che passa dal cogito cartesiano al cogitamus».


Di conseguenza, quando l'intreccio degli Spazi (Terra, Territorio, Merce) era configurato da rapporti diretti tra gli individui (pensiamo al lavoro artigianale e al minimo - per noi - della tecnologia), la realtà poteva essere reale; le conseguenze non solo sociali ma anche intellettuali del lavoro alienato fanno ora sì che solo nella realtà virtuale e tecnologica sia possibile ricostituire un'identità autentica ma che si dà solo nel collettivo. L'intelligenza collettiva. Per un'antropologia del cyberspazio (Feltrinelli, 1994) segna e fonda la scomparsa di quell'essere individuale che la tecnologia aveva inteso, viceversa, "liberare".


[pre-print per "Il bibliotecario", III serie, ISSN 11250992, 3-4/2010]

Diogene

Secondo Marcos Ros-Martín, i primi navigatori della Rete soffrivano di un’acuta “sindrome di Diogene” ma al contrario, nel senso che il timore della morte li induceva a sognare, "alla Borges", che tutto dovesse essere conservato e, per farlo, bisognasse riporlo da qualche parte e che, quando il contenitore fosse pieno, si dovesse trasferire il tutto in uno più grande (a patto che nel trasloco non si perdesse qualcosa). Tra l’altro, è quanto ci accade quando cerchiamo una casa più grande perché la libreria è talmente satura da non accogliere più nemmeno un foglio. All’inizio fu così per i file di testo, poi per quelli sonori e via via per tutte le forme degli oggetti della comunicazione elettronica che dicono multimediale. Unica alternativa, inventare sistemi di compressione degli archivi in grado di far risparmiare spazio - cosa che non possiamo fare per la libreria domestica.


Ma fu tutto inutile, continua Ros-Martín: dai primi contenitori floppy si è sì passati ai CD poi ai DVD e ora alle pen-drive, cioè contenitori sempre più piccoli ma con capacità maggiori, mentre il problema della conservazione non risiede, tanto, nelle dimensioni del contenitore, quanto e piuttosto nell'organizzazione del contenuto, cioè nella catalogazione del materiale conservato che, come si sa, ha l’unico obiettivo di consentire l’efficacia del recupero. Il fatto è che, con il passare del tempo, a meno di disporre di un sistema catalografico ferreo e permanente e sempre rispettato, non ci ricordiamo più qual fosse la chiave d’accesso: sconsolati guardiamo e con sospetto le cartelle chiuse del nostro PC cercando di immaginare che cosa possano mai contenere... Così, spesso si reinterroga la Rete (e oggi la “Nube”, dove l'inter-operabilità vige al suo massimo delle possibilità) cercando all’esterno qualcosa che, invece, custodiamo da qualche parte in casa, ma dove?


È qui, conclude Ros-Martín, che il vecchio Cinico prende la sua rivincita: l'evoluzione in senso sociale della tecnologia di rete realizza finalmente il nuovo-vecchio sogno di non conservare nulla ma tutto acquisire quando serve, come se fosse la prima volta, da contenitori esterni ai quali demandare non solo conservazione, e sicurezza, dei documenti (come con la nostra posta elettronica, come con le nostre immagini e i nostri filmati digitali depositati e condivisi, se del caso, sui varii Google-mail, Google-Docs, Flickr, YouTube, SlideShare, eccetera) ma anche, rinunciando all’intelletto individuale per fiducia nell'intelligenza collettiva "alla Pierre Levy" della Folksonomy, per l'elaborazione e l'uso diffuso dei codici semantici necessari per scoprire, individuare e identificare gli oggetti quando e se ne abbiamo ancora bisogno. L'oggetto insieme con il metodo e con lo schema euristico.


Oppure, riflettiamo, sulla medesima linea ma in un altro universo, non riempirsi a priori le "librerie" di casa ma lavorare in biblioteca... dove, tra l'altro, viene obbligatoriamente riconfermata, almeno fino a ora per dovere di fisicità dei supporti, un'identità di forma con contenuto che si è, intanto, perduta per strada con l'approdo al digitale: insieme, una grande opportunità e una fonte di angosce sul nostro destino identitario. Quanto il versioning degli scritti incide sulla conservazione dei documenti? Quanto la ridondanza obbligata dei documenti (come la tiratura degli esemplari cartacei) garantisce approcci filologicamente corretti all'esemplare unico? L'eco-sistema costituito da Internet è davvero in grado di scartare automaticamente le copie alterate o del tutto false?

Marcos Ros-Martín, El fin del Diógenes digital, «El documentalista enredado», settembre 2010.


[pre-print per "Il bibliotecario", III serie, ISSN 11250992, 3-4/2010]

Informivori

Primo a buttare il sasso in piccionaia (si fa per dire, perché è storia vecchia, dai tempi del contrasto di Thamus con Thot, almeno a credere al Fedro di Platone) è stato Nicholas Carr nell’articolo Is Google making us stupid? («The Atlantic Magazine», luglio-agosto 2008) che ha creato scandalo mediatico ma poi, in tempi recenti, a cominciare da Frank Schirrmacher di La libertà ritrovata. Come (continuare a) pensare nell'era digitale (Codice Edizioni, 2010) e passando per il numero speciale Internet ergo sum di «L'Internazionale» del 29 gennaio 2010, è tutto un improvviso rifiorire di commenti, da Clay Shirky con Does the Internet make you smarter? («The Saturday Essay», 4 giugno 2010) a Nick Bilton intervistato da Kayla Webley in Why the Internet isn't making us stupid («Time», 7 ottobre 2010), per finire con il "grande vecchio" Howard Rheingold (inventore del termine "comunità virtuale") che, tagliando la testa al toro, insegna come fuggire alla stupidità piegando ai propri fini la tecnologia, con How I use Twitter, search, Diigo Delicious, DEVONthink, Scrivener to find, refine, organize information --> knowledge che diffonde una lezione in streaming via screenr.com.


Un "Informavores rex" come stiamo diventando, convive comunque, stupidità o meno, secondo Schirrmacher, con un lato oscuro di se stesso: l'affanno dell'impossibile rincorsa all'informazione da acquisire, digerire e condividere con ritmi sempre più frenetici, talché «non saremmo più all’altezza degli impegni mentali della nostra epoca» perché la mente (ma qui e sempre confusa con il cervello) è indotta alla distrazione a causa del proliferare degli stimoli, nemici della concentrazione e, ancor più, della meditazione. Anche Pavlov, osserviamo, mostrava come la reiterazione dello stimolo facesse diminuire l'intensità della risposta e, viceversa, gli esicasti abbisognano solo della ripetizione continua di poche accurate parole, sempre identiche nei secoli... mentre oggi la funzione fantasticante (che per Zolla è tipica del burattino) diventa sfrenata e incontrollabile e preminente su quella immaginativa, proprio perché confinata in una realtà non corporea. E diverrebbe, insiste Schirrmacher, più sintetica: una sorta di taylorismo digitale che apparenta ai cómpiti lineari e binari dei microprocessori, per cui quando «la nostra attenzione è stata divorata» siamo portati a comportarci come secondo un programma, non riuscendo più a selezionare le informazioni rilevanti, ma agendo secondo degli script che processano chunk elementari (vedi «Il Bibliotecario», De nuptiis... alla voce Mapping) «Non sono né Internet né le tecnologie a limitare o instupidire la gente, bensì l’ansia di perdere il controllo e di conseguenza l’agire secondo un copione».


La soluzione? Insistere a proseguire nella direzione indicata anni fa da Wreckert e Ferguson, cioè aumentando le differenza fra uomo e macchina, perché «no machine can be made to function in the way that a human does, because of the different stuff of the hardware»...


Gabriella Longo, Animali informivori. La testa che non regge il passo della tecnologia, «Apogeonline», 15 ottobre 2010.

[pre-print per "Il bibliotecario", III serie, ISSN 11250992, 3-4/2010]

Inter-operabilità

L'inter-operabilità, nel senso di "azione reciproca", serve per unificare l'interscambio e l'interazione di sistemi diversi anche non omogenei e, quindi, per cooperare e scambiare informazioni o servizi per il riutilizzo delle informazioni, ovviamente non solo nell'àmbito di biblioteche digitali. Questa sinergia vale, infatti, per tutto ciò che deve consentire il ricorso a un unico mezzo di trasmissione per oggetti diversi, come le reti ferroviarie, telefoniche, stradali, ma anche basi di dati, governo dei flussi di lavoro e lo stesso XML. Poiché l'inter-operabilità sta diventando un diritto sancito anche dall'Unione Europea, specialmente dopo la "Dichirazione di Valencia" (22-24 novembre 2006) «per uno sviluppo efficiente, sostenibile e solidale dell’eGovernment e per la costruzione di un Governo Intelligente Comune Europeo (ECIG)», vale chiedersi se, chissà, esistano delle regole oggettive e, magari, quasi meccaniche, che la consentano.


Secondo William Arms («MIT Press», gennaio 2000), devono verificarsi due condizioni perché di inter-operabilità si possa parlare: costruire servizi coerenti le cui componenti individuali sono differenti nella tecnologia usata e sono gestite da organizzazioni diverse. Christine Borgman (id., ibid.) esige, da parte sua, tre altre caratteristiche: far lavorare insieme i diversi sistemi in tempo reale, garantire la portabilità del software su diversi sistemi operativi, nonché consentire lo scambio dei dati tra sistemi differenti. Paul Miller («Ariadne», 24, 2000) aggiunge invece che l'inter-operabilità non sia tanto dei sistemi quanto delle organizzazioni, purché pongano particolare enfasi alla gestione dell’informazione, e ne elenca sei aspetti radicali: quello tecnico come le vie di trasporto e comunicazione o le norme di rappresentazione dei dati, quello semantico e le sue nominazioni, quello umano o politico per le scelte strategiche di accessibilità e controllo, quello dell’integrazione delle comunità disciplinari o istituzionali, quello legale per l’accesso tra legislazioni tra Paesi differenti e quello internazionale con i suoi problemi di linguaggio e di approcci differenti alla tecnologia e alle prassi di lavoro.


In pratica, si tratta sempre della compresenza "al minimo" di due tipi inter-operabilità: quella tecnica e quella concettuale, che vanno previsti all'inizio dell'intero processo architetturale di un sistema informativo. Tutta la casistica è stata così sintetizzata dal “DL.org Policy Working Group” in tre soli caposaldi, perché quello tecnico comprende tutto ciò che è software e sistemi e dati, quello semantico tutto ciò che riguarda il contenuto fino all’inter-operabilità sintattica dei dati bruti e quello organizzativo aggrega tutte le istanze umane e politiche insieme con gli aspetti inter-comunitarii, quelli legali nonché la gamma delle differenze culturali internazionali.


I sistemi aperti facilitano la standardizzazione, che di suo è strettamente connessa con l’inter-operabilità e con la necessità di poter procedere alla decompilazione del software (risalire dal codice "oggetto" a quello "sorgente") al fine di conseguire i medesimi risultati anche con prodotti differenti. È per realizzare questi obiettivi - affermano Herbert Kubicek e Ralf Cimander presentando nell’«European Journal of ePractice», 6, gennaio 2008, una ricerca iniziata nel maggio 2008 - che dovrebbe impegnarsi la politica dei governi per far muovere in questa direzione le istituzioni preposte ai grandi sistemi che garantiscono accesso alla letteratura scientifica, insieme e in collaborazione con gli utenti iniziali e finali:

Organisational interoperability occurs when actors agree on the why and the when of exchanging information, on common rules to ensure it occurs safely, with minimal overhead, on an ongoing basis, and then draw up plans to do all these things, and carry them out.


Su tutto il tema, Antonella De Robbio, Organisational Interoperability.


Da regole dell'ingegneria siamo, perciò approdati a regole della politica, ribadendo implicitamente che l’unico motore sicuro ed efficace sembrano essere, come sempre, le cosiddette "risorse umane", così che il tema si ampia e si sviluppa entro canali maggiori: il principio economico di poter lavorare insieme tra sistemi diversi in modo efficace e senza compromettere le caratteristiche distintive di ciascuno può infatti favorire, anche e ovviamente, la realizzazione dell'obiettivo dell'integrazione non omologativa fra culture diverse, al limite dell'intelligenza collettiva, del che sanno qualcosa, per esempio, governi e aziende del Canada e dell'Australia (ancora in lite fra loro, del resto, sull'impiego esclusivo e non generico del termine /aborigeno/), primi nel mondo nello sviluppo di quella branca della gestione della conoscenza detta "difference management": come far lavorare insieme, e bene, cattolici con ebrei e mussulmani, etero e omosessuali, astemii con alcoolisti, tabagisti e non-fumatori, carnivori con vegani e, naturalmente, aborigeni canadesi e australiani con l'homo oeconomicus Occidentale, nonché regole e princípi di catalogazione...


[pre-print per "Il bibliotecario", III serie, ISSN 11250992, 3-4/2010]

Istruzione digitale

Sarebbero sostanzialmente tre, ritiene Evan Schnittman, le modalità con le quali leggiamo: quella immersiva, che di solito usiamo quando ci immergiamo, appunto e anche e magari, «full leisurely we glide» nella lettura sequenziale di testi dall'inizio alla fine su formati analogici, ma che lo schermo e-ink di strumenti come Kindle e compagni promettono ora di riconvertire al digitale creando così un nuovo genere: la lettura immersiva digitale; quella estrattiva, tipica dell'ambiente digitale e della Rete nella quale cercare e trovare dati e informazioni con gli alti gradi di ottimizzazione alla quale siamo ormai abituati - ma non per leggere bensì per trovare fonti o riferimenti; e quella didattica, tipica dell'apprendimento da libri di testo, esperienza lineare che contiene prassi sia estrattive sia immersive, e che è stata la forma primitiva di lettura, quella che abbiamo usato per imparare a leggere.


I primi tentativi di editoria elettronica si basavano, con grande insuccesso, sulla creazione di documenti di tipo immersivo; il passaggio a documenti estrattivi, invece, ha segnato una “nuova epoca” di pubblicazioni elettroniche perché viene fatta facilmente sullo schermo, in quanto non necessita (anzi, li rifiuta...) di periodi lunghi di lettura al monitor. Quanto alla lettura didattica, soffrirebbe per l'arretratezza degli strumenti tecnologici e pedagogici finora utilizzati che non sanno, tra l'altro, ancora ricreare nel digitale e nella distanza l'eco-ambiente che fa la fortuna della didattica "in presenza" (ma sappiamo che, a quanto riferisce una recente indagine di “Social Media Higher Education” già oltre l’80% dei docenti universitari utilizza i social media e più della metà ne fa strumenti per l’insegnamento).


Tutto vero, continua Schnittman, finché Apple non ha lanciato iPad, che sarebbe destinato a diventare il primo dispositivo-piattaforma per conseguire progressi significativi al campo dell'istruzione - in particolare di quella superiore, e per diversi motivi. Il primo si chiama iWork, la suite di produttività Apple che integra presentazione, foglio di calcolo, elaboratore di testi, e quindi intrattenimento. Il secondo si chiama pornografia, esplicitamente non accessibile con iPad, tanto per dare una vernice puritana a uno strumento "educativo": «Folks who want porn can buy an Android phone», promette caustico Steve Jobs. Il terzo è l'inter-operabilità che consente a iPad di leggere applicazioni concorrenti, da Kindle a Kobo a Nook, eccetera. Il quarto si chiama iBookstore, lo strumento "muraglia" per la suddetta "balcanizzazione" della Rete in sottoreti protette esclusive e garantite attraverso rapporti commerciali con gli editori per influenzare le vendite e sperimentare modelli di accesso al contenuto. Ma quest'ultimo è il più importante, dice Schnittman, anche se ancora non è contenuto nella configurazione corrente di iPad, e riguarda proprio i contenuti educational e prevede che proprio questa funzione permetterà di arricchire il mercato digitale di libri di testo come mai è stato fatto. Perché ci sono già strumenti che tentano questo matrimonio, come www.entourageedge.com ma non con le forme accattivanti di iPad: un'astuzia della ragione che attraverso la ricerca del piacere individuale obbliga a perseguire fini universali: «By putting the horse before the cart, Apple will have given students what they want first, only then following it with the education content they will need».

Evan Schnittman, The iPad: gateway drug to digital learning?


[pre-print per "Il bibliotecario", III serie, ISSN 11250992, 3-4/2010]

Muraglie

“Contro-rivoluzione” la definisce «The Economist», allarmato dai tentativi di balcanizzazione di Internet attraverso una programmata e aggressiva frammentazione della Rete da parte di quelli che, forse per sottrarci all'obbligo di reazione, piace chiamare "poteri forti". Solo una quindicina d'anni fa, dice l'editoriale, esplodeva la religione per un paradiso digitale di democrazia diretta - religione che Apple, ancora, riesce a vendere nei suoi “iQualcosa” - : «You have no sovereignty where we gather» scriveva (1996) il “Thomas Jefferson del ciberspazio” John Perry Barlow nella sua A Cyberspace Independence Declaration.


Ma adesso i conti, riflette la Rivista, si fanno con i governi, le aziende IT e i proprietari delle reti, che tentano (magari con la scusa della pornografia la cui persecuzione viola il sacro della neutralità della Rete), la frammentazione del virtuale in isole protette e allineate alle proprie esigenze e, soprattutto, chiuse a chi non dev’essere della partita. Facebook ne è già un esempio innocente, ma lo sono anche la fidelizzazione più o meno forzata dei servizi forniti da un’Apple o un’Amazon o un Google. Pierre Levy riconoscerebbe qui il "male del Nord", per il quale «lo spazio delle Merci vuole spadroneggiare sullo spazio del Sapere».


Questa libertà è nata grazie al silenzio, in anni di connettività universitaria "sotto traccia" ma, ora che si è rivelata al mondo, rischia l’ingabbiamento: «Tutto sta a sapere quanto alte saranno queste muraglie...», si sconsola Jonathan L. Zittrain della Harvard University.


[pre-print per "Il bibliotecario", III serie, ISSN 11250992, 3-4/2010]


Informazionismo

Di solito il termine riceve dai giornalisti più o meno professionisti una connotazione negativa («Fate informazione non informazionismo!») per contrastare l'ansia o l'orgasmo di informare in tempo reale - e spesso a pioggia e de-contestualizzando - tipica di certe espressioni del social Web. Oppure valgono le stigmate assegnategli (insieme con il cognitivismo) da Antonio Pavan:

«... l'informazionismo propiziato dalle nuove tecnologie della società dell'informazione (che tende a "ridurre" conoscenza a informazione, sapere a documentazione, elaborazione delle conoscenze a simulazione di casi, progettazione conoscitiva a virtualità); il cognitivismo (che può ridurre, nella società della conoscenza, il sapere al possesso più o meno "atomico" e comunque specialistico, di conoscenze - al plurale - a prescindere dalla loro "ruminazione", per dirla con l'Unesco, nel "sapere" della persona e della società)».

O da Alessio Bertallot:

«L’accessibilità all’oceano di informazioni di questi anni non produce cultura, ma accumulo, estensioni del database, informazionismo».

(Invece Pekka Himanen in L'etica hacker e lo spirito dell'età dell'informazione (Feltrinelli, 2001) parla, positivamente, di "informazionalismo" come nuova età del mondo e massima evoluzione dell'etica protestante: confusione linguistica del termine o approssimazione antropologica?). Per la citata Emilia Currás («…considerar el Informacionismo desde un aspecto panteísta, de connotaciones globalizadoras, tenida ésta en sentido positivo...») si tratta di una nuova epistemologia, capace dell'integrazione verticale di tutti gli archivi in nuova disciplina universale. Un nuovo nome per le geniali utopie di Otlet.

  • Emilia Currás, Informacionismo en la integración vertical de archivos, Exposición y Conferencias Internacional de Archivos (Excol '07), Bogotà, 23-27 Mayo, 2007

[post-print da "Il bibliotecario", III serie, ISSN 11250992, 1-2/2010, p. 247]