lunedì 15 novembre 2010

Informivori

Primo a buttare il sasso in piccionaia (si fa per dire, perché è storia vecchia, dai tempi del contrasto di Thamus con Thot, almeno a credere al Fedro di Platone) è stato Nicholas Carr nell’articolo Is Google making us stupid? («The Atlantic Magazine», luglio-agosto 2008) che ha creato scandalo mediatico ma poi, in tempi recenti, a cominciare da Frank Schirrmacher di La libertà ritrovata. Come (continuare a) pensare nell'era digitale (Codice Edizioni, 2010) e passando per il numero speciale Internet ergo sum di «L'Internazionale» del 29 gennaio 2010, è tutto un improvviso rifiorire di commenti, da Clay Shirky con Does the Internet make you smarter? («The Saturday Essay», 4 giugno 2010) a Nick Bilton intervistato da Kayla Webley in Why the Internet isn't making us stupid («Time», 7 ottobre 2010), per finire con il "grande vecchio" Howard Rheingold (inventore del termine "comunità virtuale") che, tagliando la testa al toro, insegna come fuggire alla stupidità piegando ai propri fini la tecnologia, con How I use Twitter, search, Diigo Delicious, DEVONthink, Scrivener to find, refine, organize information --> knowledge che diffonde una lezione in streaming via screenr.com.


Un "Informavores rex" come stiamo diventando, convive comunque, stupidità o meno, secondo Schirrmacher, con un lato oscuro di se stesso: l'affanno dell'impossibile rincorsa all'informazione da acquisire, digerire e condividere con ritmi sempre più frenetici, talché «non saremmo più all’altezza degli impegni mentali della nostra epoca» perché la mente (ma qui e sempre confusa con il cervello) è indotta alla distrazione a causa del proliferare degli stimoli, nemici della concentrazione e, ancor più, della meditazione. Anche Pavlov, osserviamo, mostrava come la reiterazione dello stimolo facesse diminuire l'intensità della risposta e, viceversa, gli esicasti abbisognano solo della ripetizione continua di poche accurate parole, sempre identiche nei secoli... mentre oggi la funzione fantasticante (che per Zolla è tipica del burattino) diventa sfrenata e incontrollabile e preminente su quella immaginativa, proprio perché confinata in una realtà non corporea. E diverrebbe, insiste Schirrmacher, più sintetica: una sorta di taylorismo digitale che apparenta ai cómpiti lineari e binari dei microprocessori, per cui quando «la nostra attenzione è stata divorata» siamo portati a comportarci come secondo un programma, non riuscendo più a selezionare le informazioni rilevanti, ma agendo secondo degli script che processano chunk elementari (vedi «Il Bibliotecario», De nuptiis... alla voce Mapping) «Non sono né Internet né le tecnologie a limitare o instupidire la gente, bensì l’ansia di perdere il controllo e di conseguenza l’agire secondo un copione».


La soluzione? Insistere a proseguire nella direzione indicata anni fa da Wreckert e Ferguson, cioè aumentando le differenza fra uomo e macchina, perché «no machine can be made to function in the way that a human does, because of the different stuff of the hardware»...


Gabriella Longo, Animali informivori. La testa che non regge il passo della tecnologia, «Apogeonline», 15 ottobre 2010.

[pre-print per "Il bibliotecario", III serie, ISSN 11250992, 3-4/2010]

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