lunedì 15 novembre 2010

Diogene

Secondo Marcos Ros-Martín, i primi navigatori della Rete soffrivano di un’acuta “sindrome di Diogene” ma al contrario, nel senso che il timore della morte li induceva a sognare, "alla Borges", che tutto dovesse essere conservato e, per farlo, bisognasse riporlo da qualche parte e che, quando il contenitore fosse pieno, si dovesse trasferire il tutto in uno più grande (a patto che nel trasloco non si perdesse qualcosa). Tra l’altro, è quanto ci accade quando cerchiamo una casa più grande perché la libreria è talmente satura da non accogliere più nemmeno un foglio. All’inizio fu così per i file di testo, poi per quelli sonori e via via per tutte le forme degli oggetti della comunicazione elettronica che dicono multimediale. Unica alternativa, inventare sistemi di compressione degli archivi in grado di far risparmiare spazio - cosa che non possiamo fare per la libreria domestica.


Ma fu tutto inutile, continua Ros-Martín: dai primi contenitori floppy si è sì passati ai CD poi ai DVD e ora alle pen-drive, cioè contenitori sempre più piccoli ma con capacità maggiori, mentre il problema della conservazione non risiede, tanto, nelle dimensioni del contenitore, quanto e piuttosto nell'organizzazione del contenuto, cioè nella catalogazione del materiale conservato che, come si sa, ha l’unico obiettivo di consentire l’efficacia del recupero. Il fatto è che, con il passare del tempo, a meno di disporre di un sistema catalografico ferreo e permanente e sempre rispettato, non ci ricordiamo più qual fosse la chiave d’accesso: sconsolati guardiamo e con sospetto le cartelle chiuse del nostro PC cercando di immaginare che cosa possano mai contenere... Così, spesso si reinterroga la Rete (e oggi la “Nube”, dove l'inter-operabilità vige al suo massimo delle possibilità) cercando all’esterno qualcosa che, invece, custodiamo da qualche parte in casa, ma dove?


È qui, conclude Ros-Martín, che il vecchio Cinico prende la sua rivincita: l'evoluzione in senso sociale della tecnologia di rete realizza finalmente il nuovo-vecchio sogno di non conservare nulla ma tutto acquisire quando serve, come se fosse la prima volta, da contenitori esterni ai quali demandare non solo conservazione, e sicurezza, dei documenti (come con la nostra posta elettronica, come con le nostre immagini e i nostri filmati digitali depositati e condivisi, se del caso, sui varii Google-mail, Google-Docs, Flickr, YouTube, SlideShare, eccetera) ma anche, rinunciando all’intelletto individuale per fiducia nell'intelligenza collettiva "alla Pierre Levy" della Folksonomy, per l'elaborazione e l'uso diffuso dei codici semantici necessari per scoprire, individuare e identificare gli oggetti quando e se ne abbiamo ancora bisogno. L'oggetto insieme con il metodo e con lo schema euristico.


Oppure, riflettiamo, sulla medesima linea ma in un altro universo, non riempirsi a priori le "librerie" di casa ma lavorare in biblioteca... dove, tra l'altro, viene obbligatoriamente riconfermata, almeno fino a ora per dovere di fisicità dei supporti, un'identità di forma con contenuto che si è, intanto, perduta per strada con l'approdo al digitale: insieme, una grande opportunità e una fonte di angosce sul nostro destino identitario. Quanto il versioning degli scritti incide sulla conservazione dei documenti? Quanto la ridondanza obbligata dei documenti (come la tiratura degli esemplari cartacei) garantisce approcci filologicamente corretti all'esemplare unico? L'eco-sistema costituito da Internet è davvero in grado di scartare automaticamente le copie alterate o del tutto false?

Marcos Ros-Martín, El fin del Diógenes digital, «El documentalista enredado», settembre 2010.


[pre-print per "Il bibliotecario", III serie, ISSN 11250992, 3-4/2010]

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